MEHR LICHT! / UNDERWOOD

Sofia Silva | UNDERWOOD

Alexander Cozens, 20. Half Clouds Half Plain, the Clouds Darker than the Plain or Blue Part, and Darker at the Top than the Bottom, Etching on paper, 110 × 159 mm Photo © Tate. CC-BY-NC-ND 3.0 (Unported)

Alexander Cozens, 20. Half Clouds Half Plain, the Clouds Darker than the Plain or Blue Part, and Darker at the Top than the Bottom, Etching on paper, 110 × 159 mm
Photo © Tate. CC-BY-NC-ND 3.0 (Unported)

Dimenticare

Il dialogo si svolge tra un giardino dove si è nudi senza saperlo e un vestibolo dove ci si è denudati.
(Cristina Campo)

«Nel 2011 sono stata studentessa di Daniele Del Giudice a Venezia; il Professore spesso faticava a tenere lezione, ma l’insegnamento umano che ci ha trasmesso è stato indimenticabile per molti di noi. So poco dei successivi dieci anni, gli anni del decorso della  malattia, so poco della struttura che l’ha ospitato e di quel che lui ha vissuto, ma mi sembra giusto che almeno un episodio di UNDERWOOD, allontanandosi dalla figura e dalla storia di Daniele Del Giudice, sia dedicato alle malattie neurodegenerative, a come sono percepite ed espresse nell’approccio al caregiver, e a quanto sia necessario destigmatizzarle.

Quando si diventa caregiver di persone malate di demenza o Alzheimer e si annunciano ad amici e colleghi i cambiamenti di vita che seguiranno a questo nuovo stato di necessità, le reazioni più comuni sono due: la paura e la pietà. Sembra una generalizzazione, non lo è.
Gli impauriti impallidiscono al solo udire il nome del morbo, lo sguardo s’appanna e retrocede nel reame della proiezione: è successo a loro, può succedere anche a me. Seguono svariate domande morbose che hanno lo scopo di lenire l’orrore con la perversione del dettaglio. Altri appartenenti al macrogruppo degli impauriti, pronunciano una frase di circostanza attinente l’ambito della contrizione per poi, nei successivi cinque, dieci anni di decorso della malattia, non chiedere mai aggiornamenti sulle condizioni del malato.
Il secondo macroinsieme di persone, i pietosi, circumnavigano il malato come una scultura nel mezzo di una rotatoria, ponendo al limite qualche domanda inerente la sua routine, e puntano dritti al caregiver: “E tu? Tu come fai?”. Quel “tu”, specie se pronunciato all’interno di una conversazione tra persone benestanti cresciute in un ambiente alfabetizzato e magari progressista, racchiude un piccolo cosmo di tabù, interdizioni e rivendicazioni sociali. Se il caregiver è giovane, l’interlocutore, specie se maggiore in età, si sentirà legittimato a consigliare una verità appresa in decenni di lotta per l’emancipazione dal tutto e niente, si sentirà autorizzato a suggerire di non sacrificarsi; di proteggersi; di prendere una distanza.
Non so come si chiami: sono stata raggiunta dalle espressioni “wellness consumerism” e “capitalismo emotivo”, forse si dovrebbe parlare anche di “egoismo olistico” e di “potere multivitaminico della rimozione”; fatto sta che oggi l’individuo è spronato a pensare la vita come un diagramma a torta delle proprie energie. Se la fetta dedicata a se stessi e al proprio fantomatico benessere non occupa l’80% della Sacher, allora l’individuo sta sbagliando, sta commettendo il peggiore tra i mali: il sacrificio di sé. In pochi arrivano a comprendere che dedicarsi non è sacrificarsi.
Fortunatamente, il caregiver troverà anche dei buoni interlocutori, altri caregiver, o persone che non vivono nella necessità di rimuovere l’idea di malattia e morte da quella di vita, con cui sarà rincuorante parlare. Personalmente ricordo quello che mi disse un’amica di Novara: “L’Alzheimer è la malattia delle anime sensibili”.
Sorelle della Sacher individualista, sono la torta al limone identitario e la meringa della memoria. Le persone terrorizzate da Alzheimer e demenza parlano dell’identità di un individuo come se essa fosse definita dai suoi ricordi. Come se la memoria fosse aneddotica, e non qualcosa di eternato nella scia di eventi che la persona ha iscritto nel mondo, nonché  nel corpo, e nell’inconscio.
Si dice che per allenare la memoria, sia utile fare le parole crociate. Penso piuttosto che per costruire una memoria sia indispensabile il coraggio di vivere e che questo si espliciti nella responsabilità di decidere. La decisione è l’unico inchiostro.

Nell’ultimo libro della Repubblica, il Decimo, Platone fa raccontare a Socrate il mito di Er, il valoroso combattente risvegliatosi sulla propria pira funebre al fine di raccontare agli uomini il viaggio delle anime nell’aldilà. Er, eletto testimone dagli dei, narra lo schematico e avvincente “ricambio” delle anime, che sono sempre le stesse, di era in era. La rivoluzione platonica sta nel fatto che ogni anima, dopo dieci, cento o mille anni trascorsi a mondarsi tra una voragine celeste e l’altra, è portata a scegliere la tessera del proprio destino successivo di fronte alla moira Lachesi. “La responsabilità sta nella scelta di vita; dio non c’entra”, scrive Platone nel IV secolo a.C. Scelta la propria tessera, le anime che un tempo erano cigni, cani e tiranni e che ora s’apprestano a diventare aquile, balie e guerrieri, si dirigono verso la pianura di Lete. Ed è proprio nella pianura del fiume Lete, il fiume dell’oblio, cui Dante molto più tardi accosterà il fiume della memoria buona, l’Eunoè, che si chiude questo libro.

Scrive Platone:

“[Le anime] camminavano nella calura e in un’afa terribile. Non c’era un albero, la terra pareva un deserto. Verso sera si accamparono, presso il fiume Amelete. La sua acqua produce oblio, e non può essere trattenuta in nessun vaso. A tutte le anime fu imposto di bere una misura di quell’acqua: ci furono però molti che, lasciata ogni prudenza, ne bevvero assai di più, e bevendo bevendo, dimenticarono tutto. Poi si posero a giacere e si addormentarono: ma ecco che, a mezzanotte si udì un gran tuono, e ci fu un terremoto. Di colpo le anime furono proiettate in alto, quale da una parte, quale dall’altra, sprizzando via come stelle filanti: verso la nascita”.

L’oblio è un fiume, e in quella occidentale come in altre culture, l’acqua corrente è preposta alla purificazione.
Da una persona adulta, da una persona che è anziana o si appresta a diventarlo, ci si aspetta un patrimonio di ricordi, nozioni e abilità che sanciscono il ruolo di quell’individuo nel mondo. Un malato di Alzheimer non è in grado di elargire queste ricchezze, ma può offrire qualcosa di più raro, la purezza appunto, accompagnata dai suoi molti compagni tra cui anche il dispettoso Capriccio. Stare accanto a una persona che ha dimenticato le parole o la vita o i volti, porta a riuscire a percepire del vaso, il vuoto, del contenitore, il contenuto, anche nella sua tragicità. Stare accanto a un malato d’Alzheimer è un’esperienza cognitiva priva di orpelli che permette di entrare in intimità con l’essere senza sovrastrutture, privo di difese identitarie. Il corpo del malato di Alzheimer non si accartoccia, è il suo spirito che si libera.

Morire senza memoria è più dignitoso che vivere con paura o scarsa coscienza, e chi ancora rabbrividisce di fronte al nome di questo morbo è perché già, nel pieno delle forze e della salute, non ricorda.»

(Sofia Silva)

In medio coeli, in C. Campo, Gli imperdonabili, Milano 1987
Libro X, in Platone, Repubblica, Milano 2019


Sofia Silva (Padova, 1990) è un’artista visiva e art writer. Insegna pittura in una scuola privata di Londra e scrive per quotidiani e riviste. Tra le sue ultime mostre: About Painting (Galerie Rolando Anselmi, Roma 2021); L’Italia è un giardino (Archivi Vitali, Bellano 2021); SOFIA SILVA | SARAH LOIBL (Galerie Rolando Anselmi e Daniel Marzona, Berlino 2021); Sofia Silva: Fifteen very short and rather bitter stories (Arcade, Londra 2020); Adrian, George, Peter, Sofia, Tamina (P420 Gallery, Bologna 2019).

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