Mario Fortunato | UNDERWOOD
Il lettore, il talento e la storia
di Mario Fortunato
Detesto le santificazioni post mortem, sport che in Italia è molto praticato soprattutto in ambito letterario – forse perché la letteratura, contando poco e niente, ha un ruolo perlopiù esornativo simile a quello destinato ai soprammobili. In vita gli scrittori vengono snobbati, quando va bene. Se invece va male, possono essere irrisi o magari – specie in anni trascorsi – finire sotto processo. E’ accaduto a Pasolini ma anche al mio amico Pier Vittorio Tondelli. A un altro amico, scomparso di recente dopo un’odiosa malattia che lo rendeva ignaro di sé e del mondo, è andata meglio. Perché Daniele Del Giudice ha avuto fin dal principio se non altro la fortuna di godere di un esteso apprezzamento critico, benché non del successo popolare che del resto difficilmente tocca in vita ai veri scrittori.
Quando nel 1983 Daniele esordì con Lo stadio di Wimbledon, fu subito chiaro che quel piccolo romanzo così poco romanzesco indicava una nuova strada alla narrazione. Il libro uscì in un tempo in cui nel nostro Paese c’era ancora, con tutti i suoi difetti, una rispettabile società letteraria: ecco perché il parere apertamente positivo di Italo Calvino aiutò quel testo a incontrare con maggiore facilità i suoi lettori. Il sottoscritto era tra quei lettori. E da allora ogni pagina pubblicata da Del Giudice ha significato – al di là del giudizio sulla singola opera che poteva essere ai miei occhi migliore o peggiore della precedente – un arricchimento e un motivo di stima e di fiducia verso uno scrittore di indubbio talento.
In seguito, le circostanze fecero sì che la mia vita incrociasse quella di Daniele anche nella cosiddetta realtà. Ho raccontato altrove le suddette circostanze con ciò che ne scaturì, e non vorrei ripetermi in questa occasione. Tuttavia, sarei un bugiardo se non ripetessi ancora una volta che ho nei suoi confronti un immenso debito di gratitudine: perché fu lui il mio primo lettore ma soprattutto perché mi diede una mano a tenere a bada e a controllare, per quanto è ragionevolmente possibile, quell’invincibile armata di insicurezza che chiunque scriva alimenta dentro di sé. E’ dunque grazie a lui se oggi sono ciò che sono: il che non vuol dire che coltivi di me stesso una grande opinione. Al contrario. Ma se qualcosa di buono c’è in me, come individuo e come scrittore, lo debbo a Del Giudice e a pochi altri, mentre è alla mia persona che imputo il resto.
Ciò nonostante – ho detto poche righe fa – odio le santificazioni post mortem. Motivo per cui adesso eviterò di dire che Daniele è stato il più grande scrittore italiano dell’ultimo secolo, perché non lo penso. Come eviterò di dire che era una persona senza ombre – a parte tutto, chi è privo di ombra si suppone non abbia un corpo, e quello di Daniele, ancorché poco ingombrante, anzi piuttosto minuto, disponeva di un notevole quantitativo di vitalità. In altri termini, era un uomo e uno scrittore capace di amare (prerogativa non così diffusa come si crede), cioè di essere autenticamente sé stesso, peccati inclusi.
Alcuni suoi libri resteranno. Di questo sono convinto – di sicuro sono rimasti nella mia testa, al di là della gratitudine e al di là dei dissapori che pure ci sono stati fra noi. Resteranno anche al di là della loro effettiva circolazione: la storia suggerisce che la letteratura non è una classifica di best-sellers, e la storia, malgrado tutto, è uno dei pochi strumenti utili per allungare l’occhio sul futuro. Certo, al momento, la visione non pare un granché: il futuro sembra più che altro simile a un cumulo di spazzatura che nessuno riesce a smaltire (chi vive a Roma, città natale di Daniele, sa a che cosa sto pensando). Però in un angolino irrilevante, secondario e fuori mano di quel futuro denso di cattivi odori, ci sarà sempre un lettore, per quanto stordito dalle cattive esalazioni dell’ambiente, alla ricerca di un po’ di grazia che renda la sua vita un posto più gradevole. Di conseguenza sarà inevitabile per lui incontrare prima o poi i libri di Del Giudice. E’ accaduto a me, più di trent’anni orsono – capiterà anche a lui. Grazie a Vico, noi italiani lo sappiamo bene: la storia tende a ripetersi. Il talento, invece, meno. E quello di Daniele è uno dei non molti su cui farei affidamento.
Mario Fortunato ha diretto l’Istituto italiano di cultura di Londra ed è opinionista della Süddeutsche Zeitung. Critico letterario, traduttore di autori come Maupassant, Virginia Woolf e Evelyn Waugh, ha pubblicato narrativa, saggi e memoir. Il suo ultimo romanzo è Sud (Bompiani, 2020). Ha scritto di Daniele Del Giudice anche in Quelli che ami non muoiono (Bompiani, 2008).