ESPORRE IL CINEMA: CHANTAL AKERMAN

Variazioni sul tema della prigionia: La Captive di Chantal Akerman
Ida Porfido

Chantal Akerman, La Captive, 2000, stills da film, courtesy Cinematek, Bruxelles

Chantal Akerman, La Captive, 2000, stills da film, courtesy Cinematek, Bruxelles

Quando nel novembre del 1923, esattamente dieci anni dopo la pubblicazione di Du côté de chez Swann, le Éditions de la Nouvelle Revue Française diedero alle stampe Sodome et Gomorrhe III, La Prisonnière, il suo autore era morto da poco meno di un anno (18 novembre 1922) senza essere riuscito a rivederne nemmeno le bozze. Nel periodo della guerra e del primo dopoguerra, infatti, quello che inizialmente avrebbe dovuto essere l’ultimo volume della Recherche si era progressivamente espanso, fino a comprendere ben quattro libri, tutti pubblicati postumi. Perciò è legittimo credere che questa nuova parte della monumentale opera di Proust racchiuda gli ultimi sforzi di un moribondo che non ha avuto né il tempo, né la forza per portare a termine la sua immensa “cattedrale”.

Fin dal 1908, tuttavia, per lo sviluppo del romanzo Proust aveva in mente qualcosa di simile a ciò che di fatto avrebbe successivamente raccontato nella Prisonnière: «La fanciulla, Albertine, sarà rovinata, io la manterrò, ma senza cercare di possederla, senza goderne, per incapacità di essere felice, per impossibilità di essere riamato». Va precisato che la storia di Albertine – come sostengono i biografi dello scrittore e confermano alcune sue lettere – ricalca da vicino quella di Alfred Agostinelli, il giovane che lavorò per lui prima come autista, nel 1907-1908, all’età di 19-20 anni, poi come segretario, nel 1913: uno dei più grandi amori di Proust, che abitò con lui per circa sei mesi, lo lasciò per diventare aviatore, rifiutò i generosi regali del “padrone-amico” (Proust si spinse fino ad acquistare un velivolo destinato a lui), precipitò in mare con il suo aereo il 30 maggio 1914 e vi morì annegato Così, nel complesso dialogo tra vita e romanzo, l’oggetto del desiderio e della gelosia del Narratore cambia sesso, ma non sostanza. Nella Prisonnière, in particolare, l’artista omosessuale prossimo alla fine, barricato all’interno della propria creazione e della propria malattia tanto da decidere di rivestire di sughero la camera da letto in cui scriveva per proteggersi dal mondo esterno, sembra dare libero sfogo al suo ultimo sogno, irrealizzabile, di costruire un universo concentrazionario un po’ sui generis dove possedere pienamente l’essere amato.

Ed è forse proprio da questi elementi che conviene partire per analizzare il secondo lungometraggio di Chantal Akerman, La Captive, per girare il quale, infatti, la regista si è liberamente ispirata al fatale intreccio tra Eros e Thanatos di cui si nutre il capolavoro proustiano. Presentato al Festival di Cannes del 2000, oltre che al Torino Film Festival dello stesso anno, e interpretato da Stanislas Merhar, Sylvie Testud, Olivia Bonamy, Françoise Bertin, il film ha riscosso l’unanime consenso di pubblico e critica.

Vi si narra l’estenuante agonia sentimentale di due giovani, Ariane e Simon, entrambi gravati da nomi altamente simbolici, che convivono nel vetusto, enorme appartamento ereditato da quest’ultimo nel cuore della Parigi alto-borghese La prima sembra prediligere i rapporti umani (le conversazioni con le amiche), le attività sportive (il nuoto), la vita all’aria aperta (le passeggiate); il secondo, invece, ci viene presentato come un “intellettuale” solitario e casalingo, dalla salute cagionevole, che mira a possedere e controllare l’oggetto del suo amore, cioè a riportarlo sempre a sé, ossessionato com’è dal bisogno di sapere tutto di Ariane e di condividere tutto con lei. Del resto, la prima parola che Simon pronuncia nel film è proprio “io”, emblema dell’autoreferenzialità, del solipsismo esacerbato in cui è avviluppato.

Il benestante protagonista maschile (anche se il ceto sociale, va detto, il potere del denaro sono fattori quasi ininfluenti all’interno della vicenda narrata, che si dipana in un ambito senza dubbio più astratto e filosofico) vive il suo rapporto d’amore sotto forma di dominio, imponendo alla giovane donna un rigoroso rituale fatto di stretta sorveglianza, interrogatori serrati ed elaborati riti igienici, tanto comportamentali quanto sessuali. Simon, infatti, sospetta Ariane di intrattenere segretamente delle relazioni omosessuali e di mentirgli senza posa. La presunta vittima, dal canto suo, sembra mantenere per tutto il film un atteggiamento consenziente, tra il passivo, l’indifferente o il trasognato, fino al momento in cui una sera non sceglie, in maniera del tutto inaspettata, di tuffarsi nelle fredde acque del mare normanno, dove muore annegata.

Le innumerevoli schermaglie tra i due, i sofismi, gli arrovellamenti, i tradimenti (veri o presunti) sono raccontati con dovizia di particolari, oltre che con quella lentissima scansione temporale che è una delle cifre stilistiche di Akerman. L’impressione che se ne ricava è che Simon non sia innamorato di Ariane, bensì della sua immagine, che insegue incessantemente nelle silenziose strade di una Parigi immersa nella luce estiva o nel buio della notte (bellissimi i giochi d’ombra sui muri dei palazzi), oppure il suo spettro sorpreso in un livido dormiveglia (si pensi alle splendide sfumature cromatiche – rosa antico, grigio perla, giallo ocra – di abiti, tappezzerie, accessori, che si contrappongono al biancore alabastrino della pelle nuda della donna). Ed è sempre il riflesso della bellezza di Ariane, non la sua essenza, che Simon coglie nelle labirintiche sale del Musée Rodin o nelle innumerevoli stanze del suo antico appartamento…

La Captive è una pellicola bella e difficile, perché Akerman riesce a rendere con pochi, sapienti segni la passione paranoica del protagonista, il modo in cui il suo amore asfittico si trasforma progressivamente in ossessione totalizzante. Chi ha letto il capolavoro proustiano saprà apprezzarne l’oculato lavoro di riduzione e adattamento, riuscendo a cogliere le numerose allusioni al romanzo disseminate nel film: ad esempio la prima, stupenda scena delle fanciulle che giocano sulla spiaggia, il cui riferimento immediato è alla bande di amiche al centro del secondo volume della Recherche, A l’ombre des jeunes filles en fleurs. Gli altri spettatori meno consapevoli, invece, vi leggeranno senz’altro un apologo sull’incolmabile distanza che separa un uomo e una donna, nonostante l’apparente intimità del loro rapporto, se non addirittura una parabola sul divario esistente tra Uomo e Donna o tra gli esseri umani in generale, al di là della loro identità sessuale. In entrambi i casi la forza espressiva delle immagini, i vuoti calcolati, la misura e il tono sospeso, a volte patinato, onirico, lunare, così carico di sottintesi, finiranno con l’imporsi su tutte le altre suggestioni, catturando irrimediabilmente lo spettatore e rendendolo quasi vittima, al pari di Simon, di una specie di incantesimo. Rimarrà senz’altro impressa nella memoria, ad esempio, la scena in cui Simon, alla disperata ricerca di Ariane, si ostina a chiedere alle amiche cosa renda così diverso l’amore tra due donne rispetto all’insoddisfazione di cui egli fa inesorabilmente esperienza nel proprio rapporto con l’amata, oppure la lunga sequenza cinematografica in cui prostitute e transessuali emergono dal buio del Bois de Boulogne per sfilare una alla volta davanti agli occhi di Simon, comodamente adagiato sul sedile posteriore della sua auto.

In definitiva, nella Captive l’amore a due, privo com’è di vibrazioni, di pathos, di vita pare risolversi in un semplice accostamento di corpi, in un fugace incontro tra reciproci ostaggi che si avvicinano l’uno all’altro per consumare algidi amplessi o rapaci incontri in vestaglie di seta. Ariane e Simon in fondo non sono che due estranei conviventi, abituati a sciogliere i propri umori corporei in acque adiacenti, rigorosamente separate da un vetro. Akerman, infatti, gioca a frapporre sottili e invalicabili schermi tra loro, a introdurre una serie di scarti spazio-temporali all’interno dei quali forse i due amanti sperano di riuscire a far nascere un giorno un sentimento unico e puro, come ricreato in vitro. E invece questo spazio intermedio finirà presto per trasformarsi in un vuoto incolmabile, in un’assenza, in un buco nero dove i due precipiteranno fatalmente. A questo proposito va sottolineata la presenza nel film di due elementi ricorrenti, quasi leimotive di una struggente marcia funebre, presagi di una minaccia incombente (non a caso le note della Sonata per pianoforte n° 2 di Rachmaninov si levano a più riprese nel corso del film): il primo è il mare, con cui si apre e chiude, come in un cerchio, il racconto di questo amore infelice; il secondo è il piacere manifesto che mostra Ariane (alias Alfred Agostinelli) nel guidare l’automobile di Simon. Sconsolata riflessione sulla natura inappagabile del desiderio umano, La Captive emana lo stesso fascino tenace, per quanto sottile, che spinge Simon a inseguire fino alla fine il fantasma di Ariane.

    In quest’ottica è legittimo pensare che La Prisonnière possa essere stata per Proust ciò che all’epoca Bérénice fu per Racine (e il richiamo al teatro non è casuale, perché il romanzo in questione ha i tratti di un vero e proprio huis clos, tanto quanto la celebre tragedia francese scritta nel 1670): la scommessa (vinta) di “riuscire a fare qualcosa a partire da niente”, ovvero dipingendo un uomo e una donna, quasi sempre da soli, uno di fronte all’altro, in un unico interno classico, spoglio, che richiama alla mente un puro spazio geometrico. Nel romanzo proustiano, infatti, gli esterni non sono quasi mai visti o vissuti (salvo rare eccezioni), bensì ricreati con l’immaginazione a partire da suoni provenienti dall’esterno. E anche nel film di Akerman i clacson delle macchine, lo scricchiolio dei parquet o le voci dei passanti costituiscono l’unico tappeto sonoro su cui si adagiano i monologhi o le scarne conversazioni dei personaggi. Questo sembra essere il vero nucleo narrativo della Prigioniera proustiana e della Reclusa akermaniana. Il resto (le serate mondane, le uscite in macchina, le passeggiate al Bois…) appaiono come meri intervalli tra un atto e l’altro di un’immobile, claustrofobica tragedia.

Ida Porfido


Ida Porfido è professora associata di Lingua francese presso il Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica dell’Università di Bari. Dopo aver perfezionato gli studi in Francia, ha pubblicato diversi volumi, articoli e saggi sulle commistioni tra discorso sociopolitico e generi letterari nell’opera di Vallès, sulla stampa rivoluzionaria francese del secondo Ottocento, sul mito di Don Giovanni in Baudelaire, sull’immaginario decadente nei romanzi di Mirbeau, sul duello letterario tra Balzac e Sainte-Beuve, sulla figura del brigante italiano nei periodici illustrati francesi. A lungo componente del GREC (Groupe de Recherche sur l’Extrême Contemporain), negli ultimi anni si è interessata in maniera specifica tanto all’attualità narrativa francese, quanto alle problematiche inerenti alla traduzione letteraria, pubblicando in italiano alcune opere di scrittori francesi moderni e contemporanei quali Bertina, Cadiot, Desbiolles, Flaubert, Mirbeau, NDiaye, Pommerat, Sales, Serena, Zola. In particolare, le sue riflessioni sul gesto traduttivo hanno trovato un’esposizione sistematica in una monografia dal titolo La traduzione. Una questione di stile (Lecce Pensa MultiMedia, 2017). 


Ida Porfido is associate professor of French Language at the Department of Humanistic Research and Innovation, University of Bari. After furthering her studies in France, she has published several volumes, articles and essays on the intermingling of sociopolitical discourse and literary genres in the work of Vallès, on the French revolutionary press of the second half of the 19th century, on the myth of Don Juan in Baudelaire, on the decadent imaginary in Mirbeau’s novels, on the literary duel between Balzac and Sainte-Beuve, and on the figure of the Italian brigand in French illustrated periodicals. A longtime member of GREC (Groupe de Recherche sur l’Extrême Contemporain), in recent years she has been specifically interested both in current French fiction and in the problems inherent in literary translation, publishing in Italian a number of works by modern and contemporary French writers such as Bertina, Cadiot, Desbiolles, Flaubert, Mirbeau, NDiaye, Pommerat, Sales, Serena, and Zola. In particular, his reflections on the gesture of translation have found systematic exposition in a monograph entitled La traduzione. Una questione di stile (Lecce Pensa MultiMedia, 2017). 

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